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    La lezione di Tokyo ai capi dello Sport

    di Gianfranco Coppola – Presidente USSI

    Il medagliere di Tokyo brillò. E brilla. C’è una Italia che lavora, produce, semina, raccoglie, entusiasma: è quella dello sport. Avviso ai naviganti. Non “usare” lo sport. Ma crederci sempre più. Un anno e mezzo con allenamenti in isolamento o quasi, senza quei test lungo la stagione che scandiscono una preparazione inevitabilmente curata in ogni dettaglio per l’appuntamento più importante per la carriera di un atleta: l’Olimpiade.
    Eppure, Italia strepitosa ai Giochi di Tokyo parte 1 e con un medagliere da favola anche alle paralimpiadi. Ma cosa nasconde questa pioggia di medaglie? Si sono interrogati in tanti, e il racconto dei giornalisti che stanno vivendo adesso la favola paralimpica e prima quella dei normodotati, le cronache da punti sulla mappa italica evidenziano una cosa: lo sport non è un miracolo italiano, troppo comodo pensarlo. Ma è filo mosaico di pezzi di stili di vita di persone speciali, questo si.
    Il medagliere paralimpico vede in testa la Cina e a sorpresa davanti all’Italia non tanto la Gran Bretagna quanto l’Ucraina che non corre sotto la bandiera della Confederazione OIimpica Russa e dimostra di avere una cultura dello sport che affonda le radici nei grandissimi del tempo della Guerra Fredda. L’Italia precede Germania e Francia e la Svizzera. E’ allora il nostro un paese super civile che investe per consentire ai meno fortunati di poter disporre di palestre e infrastrutture?
    A naso, no. E allora come si spiega la soleggiata spedizione nel Paese del Sol Levante sia per i Giochi classici che per quelli del CIP? Prima di tutto, la capacità di un popolo di esprimere solidarietà e impegno rendendo vulnerabili le difficoltà che in altri paesi sarebbero insormontabili. Sono le storie di società di basket in carrozzina che non hanno dove lasciare gli strumenti di pratica sportiva che tornano a casa spingendo le ruote e trascinando sacconi. E così per tante altre discipline. Ci sono tecnici che sposano la causa dei diversamente abili ricevendo la gioia di un messaggio di forza di volontà, avvertendo l’esigenza di lasciare ogni goccia di sapere e di sudore. La vittoria di un ragazzo che magari era nato “normale” e che ha trovato una spinta enorme nel fare attività competitiva ma in un clima di totale solidarietà ed allegria rende non solo fiero e orgoglioso il suo staff ma dà un senso all’esistenza.
    “Siamo in quinto della popolazione mondiale”, hanno urlato durante la sfilata le delegazioni delle Paraolimpiadi a Tokyo e per l’Afghanistan che non poteva avere rappresentanti c’è stato un unico coro di solidarietà. Il Giappone è ospitale per antonomasia ma tra i paletti per la parte “normale” dei Giochi pur nel medesimo clima di pandemia ecco la grande voglia di rendere uniche le altre Olimpiadi. Bambini trasportati sui bus a gratis e in sicurezza coi tamponi pur di cogliere il messaggio della vita: vivere felici oltre le sfortune e le difficoltà. Da Bebe Vio a tutti gli altri un grande stimolo a far meglio noi. A noi, a chi gestisce lo sport in Italia, con ruoli apicali, tocca capire che i sorrisi di tecnici che tra grandine e sole stanno vicino ai loro atleti, a dirigenti che spendono quanto possono per le loro società, non possono essere calcolo e fonte di arsenico e vecchi dispetti. No, maestri come Di Mulo e i suoi fantastici 4 della x 100 e ragazzi come Morlacchi non ci sentono da questo orecchio, e neppure dall’altro.

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